Terregino: ...destino della nostra terra
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RICEVIAMO ED INTEGRALMENTE PUBBLICHIAMO LE RIFLESSIONI DEL PROF. GIUSEPPE TERREGINO SUL DESTINO DEL NOSTRO TERRITORIO:
Idillio siciliano
U su Turi a cavaddu si ni stava
silinziusu cu li so’ pinsiera
e lu suli a manu a manu chi calava
l’ummira allungava a li piliera.
U juiornu già lassava u passu a sira
u riddu cricriava nto vadduni,
si zittieva la zicala supra i pira,
s’accampava u jurnataru u so saccuni.
Attaccata a nu cchiaccu da vardiedda
pi nu’ scappari duranti la via
la crapuzza cu la ciancianiedda
passu passu appriess’u mulu si ni ia.
Chi si ricorda più di una scena come quella descritta sopra. Eppure era una scena consueta tra la gente che tornava dalla campagna sul far della sera. Soprattutto ove – come da noi - i contadini non risiedevano abitualmente nei loro poderi; anche perché ognuno possedeva – quando li possedeva – diversi fazzoletti di terra, a volte in contrade da bande opposte rispetto al paese.
Era giocoforza, quindi, avere come punto di riferimento l’abitazione paesana per il riposo e la custodia delle derrate, oltre che delle bestie utili.
La capra domestica era con le galline una risorsa alimentare primaria. Ecco perché era raro che non la si vedesse al guinzaglio della cavalcatura al ritorno dai campi, intenta nelle pause del tragitto a sbocconcellare qualche ciuffo del foraggio legato al basto e destinato alla nutrizione durante il riposo casalingo. Il “su Turi” (nome di fantasia) ne aveva una pure lui. Piuttosto irrequieta a quanto pare.
E per questo motivo personaggio non secondario della scena descritta nel piccolo componimento che abbiamo chiamato, impropriamente, “Idillio” e che si presta a un commento sconsolato sulla sorte dell’agricoltura siciliana.
La definizione di “idillio” data dai dizionari di lingua italiana poco si concilia con la narrazione precedente, specie per quanto attiene alla idealizzazione della vita campestre come rifugio di pace e di letizia. Il quadretto, infatti, se da un lato evoca un mondo poetico di stampo bucolico, dall’altro richiama alla memoria una realtà non certamente priva di affanno e di sofferenze. Quale era generalmente quella dello “iurnataru” che sul fare della sera prelevava da terra o da un ramo disseccato il suo tascapane con i pochi rimasugli della magra colazione per rientrare nel guscio del proprio casolare, forse colmo di affetto, ma povero di risorse.
Il personaggio del su Turi sembra, invece, sereno e beatamente assorto nei suoi pensieri.
La sua figura è l’immagine emblematica di un mondo chiuso in se stesso nell’alveo di un destino considerato fatalmente immutabile e accettato con serena rassegnazione. Ma sta proprio in una tale presunzione di immutabilità il dramma sociale che si è venuto a determinare in Sicilia al momento in cui il trionfo della tecnologia avrebbe richiesto una visione lungimirante, soprattutto da parte dei governanti, in direzione di un aggiornamento delle tecniche produttive nel settore agricolo, invece di inseguire la chimera di una industrializzazione d’altro genere, lasciando la campagna al suo infausto destino di abbandono. Il su Turi diventa così un personaggio patetico, che rimugina pensieri di sconforto sullo sfondo nostalgico di un passato illusoriamente contrapposto al declino presente.
Il “cricriare” del grillo nell’incipiente pace del tramonto, quando si è placato lo stridio ossessivo delle cicale e il sole declinante va deponendo la foga del meriggio sulle ombre che si allungano prima di sparire nell’ammanto indistinto della sera, è la struggente colonna sonora della vicenda ciclica del tramontare, che evoca per contrasto il singolare e ineluttabile destino dell’occaso senza ritorno. In tale atmosfera – questa sì – idilliaca, la figura del su Turi è quella di un personaggio mitico, che ricompare sul fare della sera per dare corpo alla speranza della vita che permane pur nella sequenza delle generazioni.
Quella, nella realtà, del contadino siciliano che, dopo una faticosa giornata di lavoro, “riede alla sua parca mensa e seco pensa”, forse, alla gratificante resa dell’amorevole rapporto con la sua terra.
Un personaggio che, purtroppo, adesso vive solo nella memoria di una generazione ormai al tramonto. Come la genia delle capre ad uso familiare, delle quali “la crapuzza cu la ciancianedda” del su Turi è figura simbolica della specie ovina più discola e rovinosa, perché ghiotta dei germogli più teneri.
Caratteristiche che fanno imporre a ciascuna quelle limitazioni di libertà di cui si è detto nel richiamato legame a un gancio della bardatura, fatto a posta per impedire sortite estemporanee lungo il tragitto del ritorno al rifugio notturno. Ma quell’andare docilmente “passu passu appriess’u mulu” di un soggetto vocato alla libertà, applicato alla specie umana, è anche metafora di un fare controvoglia cosa vuole il padrone quando le circostanze della storia personale non consentono di scegliere alternative di vita diverse. In cui il personaggio della crapuzza è figurazione empaticamente affine.
Una lettura spassionata di stampo letterario porta alle conclusioni cui si è sopra accennato. Ma ciò non può bastare se si vuole cogliere il lato sociologico della scena. Perché quel tramonto cui va incontro il vecchio contadino è simbolo e metafora di un’attività umana senza domani sul lato economico e sociale. Onde, la riscoperta che si sta facendo oggi dell’agricoltura come risorsa insurrogabile del sistema produttivo, fonte di ricchezza e di lavoro, non può che scadere in una geremiade disperata, stante il tempo ormai irrimediabilmente perso nell’inseguire chimere senza esito risolutivo sul lato della valorizzazione del capitale umano. Soprattutto di quello della nuova generazione. Che in una attività agricola industrializzata avrebbe potuto mettere bene a frutto talento e competenze. In un quadro culturale ovviamente ben diverso, se a guidare la storia fosse stata la lungimiranza disinteressata, da quello che nutriva i pensieri del povero su Turi.
Giuseppe Terregino